SENTENZA N. 214
ANNO 2009
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA “
- Alfio FINOCCHIARO “
- Alfonso QUARANTA “
- Franco GALLO “
- Luigi MAZZELLA “
- Gaetano SILVESTRI “
- Sabino CASSESE “
- Maria Rita SAULLE “
- Giuseppe TESAURO “
- Paolo Maria NAPOLITANO “
- Giuseppe FRIGO “
- Alessandro CRISCUOLO “
- Paolo GROSSI “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1-bis,
del decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368 (Attuazione della
direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), degli artt. 1,
comma 1, e 11 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 e
dell'art. 4-bis, del medesimo decreto legislativo, introdotto
dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n.
112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza
pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, promossi dal Tribunale di Roma con
ordinanze del 26 febbraio 2008 e del 26 settembre 2008, dalla Corte
d'appello di Torino con ordinanza del 2 ottobre 2008, dal Tribunale di
Trani con ordinanza del 21 aprile 2008, dalla Corte d'appello di
Genova con ordinanza del 26 settembre 2008, dal Tribunale di Ascoli
Piceno con due ordinanze del 30 settembre 2008, dal Tribunale di
Trieste con ordinanza del 16 ottobre 2008, dalla Corte d'appello di
Bari con ordinanza del 22 settembre 2008, dal Tribunale di Viterbo con
ordinanza del 10 ottobre 2008, dal Tribunale di Milano con quattro
ordinanze del 19 novembre 2008, dalla Corte d'appello di Caltanissetta
con ordinanza del 12 novembre 2008, dal Tribunale di Teramo con
ordinanza del 17 ottobre 2008, dal Tribunale di Milano con due
ordinanze del 24 dicembre 2008, dalla Corte d'appello di Venezia con
ordinanza del 10 dicembre 2008, dalla Corte d'appello di L'Aquila con
ordinanza del 14 gennaio 2009 e dalla Corte d'appello di Roma con
ordinanza del 21 ottobre 2008, ordinanze rispettivamente iscritte ai
nn. 217, 413, 427, 434, 441, 442 e 443 del registro ordinanze 2008 ed
ai nn. 4, 12, 22, 25, 26, 27, 28, 43, 70, 86, 87, 93, 95 e 102 del
registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 29 e 53, prima serie speciale, dell'anno 2008 e
nn. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 11, 13, 14 e 15, prima serie speciale,
dell'anno 2009.
Visti
gli atti di costituzione di Gennaro Rizzo, fuori termine, di Savino
Digiorgio, di Zitouni Chalouach, di Antonio Di Giuseppe, di Anita
Rosati, di Salvatore Giallombardo, di Sonia Pirri, di Rizzo Gennaro,
fuori termine, di Simona Bulla, di Ignazio Marra, di Antonio
Passavanti, di Veronica De Mitri, di Greco Giuseppe, di Poste Italiane
S.p.A., nonché gli atti di intervento della Associazione “Articolo 21
Liberi di” e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nella udienza pubblica del 23
giugno 2009 e nella camera di consiglio del 24 giugno 2009 il Giudice
relatore Luigi Mazzella;
uditi
gli avvocati Domenico Carpagnano per Savino Digiorgio, Vittorio
Angiolini e Gloria Pieri per Zitouni Chalouach, Franco Berti per
Antonio Di Giuseppe, Vittorio Angiolini e Domenico Carpagnano per
Anita Rosati, Sergio Galleano per Sonia Pirri, di Greco Giuseppe, di
Rizzo Gennaro, fuori termine, Paolo Molteni e Fabio Fabbrini per
Simona Bulla, Domenico D'Amati per Ignazio Marra, Sergio Galleano e
Sergio Vacirca per Antonio Passavanti, Vincenzo de Michele e Sergio
Galleano per Veronica De Mitri, Luigi Fiorillo, Arturo Maresca e
Roberto Pessi per Poste Italiane S.p.A. e gli avvocati dello Stato
Fabio Tortora, Paolo Gentili e Sergio Fiorentino per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Nel corso del giudizio civile promosso da G. R. contro la
Poste Italiane S.p.A. perché fosse dichiarata l'invalidità del termine
apposto al contratto di lavoro sottoscritto tra le parti ai sensi
dell'art. 2, comma 1-bis, del decreto legislativo 6 settembre
2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa
all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE,
dal CEEP e dal CES, come aggiunto dall'art. 1, comma 558, della legge
23 dicembre 2005, n. 266 - legge finanziaria 2006), il Tribunale di
Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 101, 102
e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del
richiamato art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 (r.o.
n. 217 del 2008).
Osserva il rimettente che la norma censurata ha introdotto per le
aziende concessionarie del servizio postale la possibilità, entro
determinati limiti temporali (sei mesi nel periodo compreso tra aprile
ed ottobre di ogni anno e quattro mesi per periodi diversamente
distribuiti) e quantitativi (15 per cento dell'organico aziendale) di
procedere ad assunzioni a tempo determinato senza l'obbligo di
indicazione scritta della causale (come invece previsto in generale
dall'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001). Inoltre, anche la disciplina
sanzionatoria sarebbe più lieve rispetto a quella prevista per i
contratti stipulati ex art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001,
perché l'art. 5, comma 3, del medesimo d.lgs. n. 368 del 2001,
richiamando esclusivamente l'ipotesi della successione dei contratti
stipulati ex art. 1 dello stesso decreto legislativo, non
prevederebbe la conversione in contratto a tempo indeterminato in caso
di successione di contratti regolati dall'art. 2.
Ad avviso del giudice a quo, tale disciplina comporterebbe
una disparità di trattamento tra i lavoratori in generale e quelli
addetti al servizio postale, per i quali non opera necessariamente la
disciplina – anche sanzionatoria – di carattere generale. Difettando,
nel settore postale, quelle peculiarità che possano giustificare
deroghe alla disciplina generale, l'art. 2, comma 1-bis, del
d.lgs. n. 368 del 2001 non risponderebbe a criteri di ragionevolezza o
di razionalità e pertanto sarebbe lesivo dell'art. 3 della
Costituzione.
Quanto agli altri parametri costituzionali invocati (artt. 101,
102 e 104 Cost.) il rimettente afferma che l'introduzione di una
“acausalità” per le assunzioni a termine nel settore postale sottrae
in maniera ingiustificata al giudice ordinario il potere di verifica
delle effettive ragioni oggettive e temporanee poste alla base di
dette assunzioni con conseguente lesione delle prerogative del potere
giudiziario.
2. – Si è costituita Poste Italiane s.p.a. che ha chiesto che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.
La società deduce che il datore di lavoro che assume un lavoratore
ai sensi dell'art. 2 del d.lgs. n. 368 del 2001 non è tenuto a
specificare le ragioni dell'apposizione del termine, mentre resta
tenuto a rispettare le altre norme contenute nel citato decreto
legislativo in materia di divieti, di proroghe, di successione dei
contratti, di divieto di discriminazione, di formazione, di criteri di
computo e di informazione.
Ad avviso della società, poi, la dedotta violazione degli artt.
101 e 104 Cost. sarebbe inammissibile per carenza di motivazione, non
essendo dato comprendere in che modo la funzione giurisdizionale sia
stata limitata con l'introduzione della norma denunciata.
3. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, assistito e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia
dichiarata inammissibile e comunque infondata, rinviando al prosieguo
ogni difesa.
4. – Nel corso di un giudizio civile promosso da M. D. R. contro
Poste Italiane s.p.a., al fine di ottenere la declaratoria di nullità
del termine apposto al proprio contratto di lavoro per insussistenza
della ragione sostitutiva addotta a sostegno della clausola temporale
e la statuizione della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato tra le parti, sin dalla data dell'assunzione, con
condanna della società convenuta a riammettere la ricorrente nel suo
posto di lavoro ed a corrisponderle le retribuzioni maturate dalla
scadenza del termine nullo, il Tribunale di Roma ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, ed 11
del d.lgs. n. 368 del 2001, per violazione degli artt. 76, 77 e 117,
primo comma, Cost., e dell'art. 4-bis dello stesso d.lgs. n.
368, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25
giugno 2008 n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza
pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, per violazione degli artt. 3, primo
comma, 24, secondo comma, 101, 102, secondo comma, 104, secondo comma,
e 117, primo comma, della Costituzione (r.o. n. 413 del 2008).
4.1. – Sulla prima questione, il rimettente deduce che, prima
dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 2001, l'apposizione del
termine per ragioni sostitutive di personale assente con diritto alla
conservazione del posto, era consentita – dall'art. 1, comma 2,
lettera b), della legge 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del
contratto di lavoro a tempo determinato) – a condizione che fosse
indicato il nominativo del lavoratore sostituito e della causa della
sostituzione. Aggiunge che tale disposizione è stata abrogata (insieme
con tutta la legge n. 230 del 1962), dall'art. 11 del d.lgs. n. 368
del 2001; il che comporterebbe l'abolizione dell'onere di indicazione
del lavoratore sostituito, onere non riprodotto nell'art. 1, comma 1,
del d.lgs. n. 368 del 2001.
Il Tribunale di Roma afferma che il d.lgs. n. 368 del 2001 è stato
emanato nell'esercizio della delega conferita al Governo dalla legge
29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi
derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee – Legge
comunitaria 2000), per l'attuazione della direttiva n. 1999/70/CE, la
quale non detta alcun principio o obiettivo, né alcuna regola
vincolante per gli Stati membri al fine di garantire ai lavoratori a
termine un livello di tutela minimo per quanto attiene ai presupposti
per l'uso del termine in un singolo contratto.
Ad avviso del giudice a quo, la predetta direttiva
comunitaria pone solamente, fissandone le linee di perseguimento, due
obiettivi: la garanzia del principio di non discriminazione e la
prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo in successione di
contratti o rapporti a tempo determinato. Il rimettente aggiunge che
la clausola di non regresso contenuta nell'art. 8, punto 3,
dell'accordo quadro recepito dalla direttiva dispone che
l'applicazione dell'accordo quadro «non costituisce motivo valido per
ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori
nell'ambito coperto dall'accordo stesso» e la legge n. 422 del 2000
delegava il Governo ad emanare decreti legislativi recanti le norme
occorrenti per dare attuazione a varie direttive, disponendo che «i
decreti legislativi assicureranno in ogni caso che nelle materie
trattate da tali direttive, la disciplina fosse pienamente conforme
alle prescrizioni medesime, tenuto conto delle eventuali modificazioni
intervenute fino al momento dell'esercizio della delega».
Pertanto, secondo il Tribunale di Roma, poiché dalla legge di
delega non è desumibile altro mandato al Governo che quello di dare
puntuale attuazione alla direttiva in questione, l'art. 11 del d.lgs.
n. 368 del 2001, nell'abrogare la previgente disciplina nazionale in
materia (e, in particolare, l'art. 1, comma 2, lettera b),
della legge n. 230 del 1962), avrebbe operato in carenza di delega e,
quindi, in violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione.
Il rimettente sostiene, inoltre, che gli artt. 1, comma 1, ed 11
del d.lgs. n. 368 del 2001 lederebbero anche l'art. 117, primo comma,
Cost., per violazione dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario. Infatti la Corte di giustizia, nella sentenza 22 novembre
2005, causa C-144/04, Mangold, ha ritenuto che la direttiva in
esame non vieta come tale una reformatio in peius della
protezione offerta ai lavoratori a termine, a condizione che essa non
sia in alcun modo collegata all'applicazione di questa; invece, nella
fattispecie, tale reformatio è stata realizzata proprio nel
provvedimento destinato specificamente a dare applicazione alla
direttiva, e dichiaratamente allo scopo di darvi attuazione.
4.2. – Per quel che concerne l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368
del 2001, il Tribunale di Roma afferma che tale norma non sarebbe
applicabile al giudizio a quo, perché essa, nel prevedere che
«Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in
vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate
in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli
articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad
indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di importo
compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità
dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri
indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e
successive modificazioni», essa fa riferimento solamente alla
violazione degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, mentre nel
giudizio principale, ove fosse accolta la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 1, comma 1, ed 11 del d.lgs. n. 368 del
2001, risulterebbe violato l'art. 1, comma 2, lettera b), della
legge n. 230 del 1962.
In subordine, ad avviso del giudice a quo, la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 21, comma 1-bis, del d.l.
n. 112 del 2008, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma,
Cost., sarebbe rilevante e non manifestamente infondata.
Sotto il primo profilo, il rimettente afferma che – secondo i
principi dettati dagli artt. 1419, comma 2, e 1339 del codice civile,
che dovrebbero trovare applicazione se non fosse in vigore la
disposizione qui censurata – dalla nullità della clausola del termine
discenderebbe, secondo il c.d. diritto “vivente”, il diritto del
lavoratore al risarcimento dei danni parametrato alle retribuzioni
maturate dal momento in cui il prestatore abbia messo in mora il
datore di lavoro, offrendogli le sue prestazioni.
Ad avviso del Tribunale di Roma l'art. 4-bis del d.lgs. n.
368 del 2001, sostituendo retroattivamente alla predetta tutela
risarcitoria una indennitaria, violerebbe l'art. 3 Cost., poiché
riserva una tutela di rango inferiore ad alcuni lavoratori per il solo
fatto di avere un giudizio in corso al momento dell'entrata in vigore
della nuova disposizione.
Secondo il rimettente, ancora più ingiustificata sarebbe la
discriminazione operata nei confronti dei lavoratori in questione,
rispetto a quelli che hanno giudizi in corso nei quali vengono in
discussione le conseguenze dell'invalidità della clausola del termine
che sia disciplinata, ratione temporis, dal sistema normativo
previgente di cui alla legge n. 230 del 1962 e i lavoratori che non
abbiano ancora instaurato una controversia.
Il giudice a quo sostiene che l'art. 4-bis del
d.lgs. n. 368 del 2001 lede anche l'art. 117, primo comma, Cost. in
rapporto agli obblighi assunti dallo Stato italiano con la Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata dalla legge 4 agosto
1955, n. 848), il cui art. 6 vieta al legislatore di intervenire con
norme ad hoc per la risoluzione di controversie in corso.
Ancora, l'art. 4-bis si pone, secondo il rimettente, in
contrasto con gli artt. 101, 102, secondo comma, e 104, primo comma,
Cost., perché un intervento della legge che – come nella specie –
riguardi esclusivamente un certo tipo di giudizi in corso ad una certa
data è privo del carattere di astrattezza proprio della funzione
legislativa, assumendo carattere provvedimentale generale.
5. – Si è costituita in giudizio Poste Italiane s.p.a., la quale
chiede che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque
infondate.
5.1. – La società anzitutto contesta la prospettata illegittimità
costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001
radicata sulla violazione della “clausola di non regresso” e, per
questo tramite, la violazione dell'art. 117, primo comma, della
Costituzione.
Secondo la società Poste Italiane, la funzione di detta clausola è
solo quella di impedire che un arretramento di tutele si fondi sulla
asserita pretestuosa necessità di conformare in tal modo l'ordinamento
interno alla direttiva, ma essa non vieta in assoluto ai legislatori
nazionali di ridurre le proprie tutele fino al minimo comunitario.
5.2. – Quanto all'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, la
società afferma che scopo dell'intervento legislativo è il
perseguimento della crescita del tasso di incremento del prodotto
interno lordo rispetto agli andamenti tendenziali per l'anno in corso
e per il successivo triennio attraverso l'immediato avvio di maggiori
investimenti in materia di innovazione e ricerca, sviluppo
dell'attività imprenditoriale, diversificazione delle fonti di energia
e rilancio delle privatizzazioni. In tale prospettiva l'art. 4-bis
sarebbe stato introdotto per arginare, nell'interesse generale,
l'eccessivo ampliamento dell'organico delle imprese nel caso in cui
numerosi rapporti di lavoro a termine fossero trasformati in rapporti
a tempo indeterminato per via giudiziale.
Nessun contrasto sarebbe ravvisabile con l'art. 24 Cost., in
quanto la modifica, temporanea ed eccezionale dell'apparato
sanzionatorio non incide sulla tutela giurisdizionale che rimane
salda, mentre, quanto agli artt. 101, 102 e 104 Cost., la norma
censurata non influisce sulla funzione giudiziaria, poiché il
contratto a termine, oggetto del “giudizio in corso” resta comunque
soggetto al sindacato giurisdizionale cui compete l'accertamento della
legittimità del contratto medesimo.
6. – E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, eccependo
l'inammissibilità della questione concernente gli artt. 1, comma 1, e
11 del d.lgs. n. 368 del 2001, sia perché priva di adeguata
motivazione, sia perché posta in astratto: il rimettente infatti, pur
non essendo provate le esigenze sostitutive che potrebbero
giustificare l'apposizione del termine, dichiara di sollevare la
questione «a prescindere da ogni valutazione in ordine alla
sufficienza della giustificazione quale offerta e provata nel caso di
specie».
L'interveniente rileva inoltre che la questione è stata sollevata
senza aver preventivamente escluso che nella fattispecie fosse
intervenuto un mutuo consenso tra le parti in ordine alla risoluzione
del rapporto dedotto in giudizio (ipotesi configurabile nel caso di
specie, nel quale il lavoro era stato svolto per meno di tre mesi,
mentre la domanda giudiziale era stata proposta quasi tre anni dopo la
scadenza del termine).
Tale ragione di irrilevanza si estende, ad avviso della difesa
erariale, anche alla censura mossa all'art. 4-bis, il quale
regola le conseguenze economiche della violazione dell'art. 1, oltre
che degli artt. 2 e 4: solo nel caso in cui dovesse pervenirsi alla
illegittimità costituzionale dell'art. 1, la questione dell'art. 4-bis
diverrebbe rilevante; ove, invece, non fosse possibile (per
irrilevanza) accertare la violazione dell'art. 1, sarebbe impossibile
pervenire ad un giudizio di illegittimità dell'art. 4-bis.
Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la questione è,
comunque, infondata nel merito.
L'obbligo del datore di lavoro di indicare il nominativo del
lavoratore sostituito, quale condizione di liceità dell'apposizione
del termine, può ritenersi logicamente implicito, o ricompreso nel più
ampio obbligo – prescritto dall'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 – di
indicare, per iscritto, specificandole, le ragioni sostitutive. La
questione dovrebbe quindi risolversi in termini interpretativi (di
rigetto).
Infondata sarebbe, infine la questione riguardante l'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001, norma che, ad avviso della difesa
erariale, non discrimina i lavoratori interessati. Inoltre,
l'ordinanza di rimessione specifica quali sarebbero le conseguenze
economiche della dichiarazione di invalidità del termine in assenza
dell'art. 4-bis, e nemmeno dimostra che il regime introdotto
dalla norma censurata sia necessariamente deteriore rispetto agli
altri possibili regimi risarcitori ipotizzabili in base alle regole
generali.
7. – Nel corso del giudizio di appello proposto dalla Compagnia
Internazionale delle Carrozze Letti e del Turismo avverso la sentenza
del Tribunale di Torino del 5 febbraio 2008, che aveva accolto la
domanda dei lavoratori A.O. e A.G. volta ad ottenere la declaratoria
di nullità del termine apposto al loro contratto di lavoro, in
violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, la Corte di appello
di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con
gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui dispone che, per i giudizi
in corso alla data della sua entrata in vigore, in caso di violazione
degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, il datore di lavoro è
tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro secondo
predeterminati criteri di calcolo dell'indennità (r.o. n. 427 del
2008).
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata
contrasterebbe con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3
Cost., poiché prevede una tutela attenuata per i lavoratori a termine
che siano parti in un giudizio in corso, rispetto a tutti gli altri
lavoratori a tempo determinato, e con l'art. 24 Cost., perché un
intervento legislativo che, come nella specie, riguarda solo un certo
tipo di controversie pendenti ad una certa data sarebbe privo del
carattere di astrattezza proprio della legislazione ed assumerebbe
carattere provvedimentale generale con riguardo ai giudizi in corso,
invadendo così l'area riservata al potere giudiziario. Con la
conseguenza che ne sarebbero pregiudicati i soli ricorrenti che, per
ragioni assolutamente casuali, abbiano introdotto la causa prima
dell'entrata in vigore della legge censurata e la stessa non fosse
stata definita prima della medesima data.
Precisa la Corte di appello di Torino che la norma censurata
appare tanto più irragionevole, perché distingue tra coloro che per
motivi indipendenti dalla loro volontà (attività del sindacato o del
legale, durata dei processi) hanno ottenuto una sentenza non più
impugnabile e coloro che hanno ancora un giudizio in corso, pur avendo
ipoteticamente stipulato un contratto a termine con lo stesso datore
di lavoro e nello stesso periodo; e, ancora, tra coloro che hanno
depositato il ricorso introduttivo del giudizio il giorno prima della
pubblicazione della legge e coloro che lo depositano il giorno dopo la
sua entrata in vigore.
8. – E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, eccependo
l'irrilevanza della questione in quanto il giudice a quo non si
è pronunciato sulla illegittimità del termine, prima di affrontare la
norma censurata.
Nel merito, la difesa erariale sostiene che il presupposto di
fatto della norma censurata è stato l'enorme dilatazione del
contenzioso diretto a contestare la validità dell'apposizione del
termine ai contratti di lavoro, con possibile vanificazione, a causa
dell'incertezza delle conseguenze economiche delle dichiarazioni di
invalidità delle clausole oppositive del termine, delle finalità della
riforma della disciplina del contratto a tempo determinato operata dal
d.lgs. n. 368 del 2001 (aumento delle possibilità di accesso al lavoro
subordinato per lavoratori destinati altrimenti a forme ancora più
precarie di lavoro).
L'interveniente nega, poi, che l'art. 4-bis del d.lgs. n.
368 del 2001 discrimini i lavoratori interessati dai contenziosi in
corso, anche perché le soluzioni offerte dalla giurisprudenza circa le
conseguenze economiche della dichiarazione di invalidità del termine
apposto al contratto di lavoro non sono mai pervenute a costituire un
“diritto vivente” e il rimettente non ha dimostrato che il sistema
sanzionatorio introdotto dalla norma censurata sia necessariamente
deteriore rispetto ad altri regimi.
Infine, non sussisterebbe alcuna lesione della tutela
giurisdizionale, poiché un intervento legislativo applicabile alle
controversie in corso è in linea di principio ammissibile qualora
giustificato (come nella fattispecie) da una particolare situazione
oggettiva rispetto alla quale esso sia logicamente coerente.
9. – Nel corso di un giudizio promosso da S. D. contro Poste
Italiane s.p.a. diretto ad ottenere l'accertamento dell'illegittimità
del termine apposto ai contratti di lavoro sottoscritti dalle parti
«per ragioni di carattere sostitutivo», in quanto nei documenti
negoziali non sarebbero stati specificamente indicati i lavoratori
sostituiti, né la ragione per la quale questi ultimi sarebbero rimasti
assenti dal lavoro, il Tribunale di Trani, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale degli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del
2001, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. (r.o. n.
434 del 2008).
Secondo il giudice a quo, la fattispecie contrattuale
sarebbe pacificamente disciplinata – ratione temporis –
dall'art. 11 del d.lgs. n 368 del 2001, che ha abrogato la legge n.
230 del 1962, ivi compreso l'art. 1, comma 2, lettera b), a
mente del quale era consentita l'apposizione di un termine alla durata
del contratto quando l'assunzione avesse avuto luogo per sostituire
lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto, sempre
che nel contratto di lavoro fosse stato indicato il nome del
lavoratore sostituito e la causa della sostituzione.
Aggiunge il rimettente che la norma censurata rappresenta un
arretramento di tutela per il lavoratore, il quale non può più
pretendere che, già nel contratto, gli siano fornite le informazioni
che gli consentano di valutare preventivamente l'opportunità di
promuovere o meno l'azione giudiziaria e di evitargli, nel caso in cui
scelga la strada dell'azione, il rischio di trovarsi, nel processo, di
fronte a situazioni di fatto non valutabili in anticipo.
Premesso che il d.lgs. n. 368 del 2001 è stato adottato dal
Governo italiano in esecuzione della delega conferitagli dalla legge
n. 422 del 2000, osserva il rimettente che, poiché il legislatore
delegante si è limitato a rinviare alle «prescrizioni» della direttiva
1999/70/CE, a sua volta intervenuta solo su alcuni aspetti della
disciplina del contratto a termine ed in particolare sul «principio di
non discriminazione» (clausola 4), sulle «misure di prevenzione degli
abusi […] derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o
rapporti di lavoro a tempo determinato» (clausola 5), nonché sulle
regole da valere in tema di «informazione e possibilità di impiego»
(clausola 6) e di «informazione e consultazione» (clausola 7),
dovrebbe ritenersi assolutamente «fuori delega» la scelta del Governo
di abrogare tout court la legge n. 230 del 1962 e, per quel che
qui interessa, la norma dettata, per la causale sostitutiva, dall'art.
1, comma 2, lettera b), di detta legge.
Inoltre, ad avviso del Tribunale di Trani, sarebbe violato l'art.
76 Cost., poiché la legge di delega n. 422 del 2000 non prevedeva
princìpi direttivi ulteriori rispetto all'attuazione della direttiva
1999/70/CE la quale, alla clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro da
essa recepito, dispone che l'applicazione dell'accordo non avrebbe
potuto costituire un motivo per indurre il livello generale di tutela
offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso, mentre
le disposizioni censurate, sopprimendo la necessità della indicazione
del nominativo del lavoratore sostituito, determinano un arretramento
della tutela garantita ai lavoratori del precedente regime.
10. – Costituitosi nel giudizio di costituzionalità, il lavoratore
attore nel giudizio principale, aderendo alla tesi del rimettente,
rileva che la legge n. 422 del 2000, pur facendo «salvi gli specifici
principi e criteri direttivi stabiliti negli articoli seguenti», in
realtà, con specifico, riferimento all'attuazione della direttiva
1999/70/CE, non ne ha indicato alcuno; pertanto sarebbe evidente,
anche alla luce dei lavori parlamentari, la volontà del legislatore
delegante di conservare la precedente disciplina del contratto a
termine e, comunque, di rispettare la clausola di non regresso.
Ne deriverebbe, ad avviso della parte privata, che le conclusioni
cui è pervenuta questa Corte nella sentenza n. 44 del 2008 debbano
essere necessariamente estese agli artt. 1 e 11 del d.lgs. n. 368 del
2001, visto che il legislatore delegato, abrogando la precedente
normativa sul contratto a termine e ridisciplinando questo istituto
nei termini di cui al predetto art. 1, avrebbe violato l'art. 77 della
Costituzione.
Secondo il ricorrente, l'unica interpretazione in grado di
garantire la legittimità costituzionale degli artt. 1 e 11 del d.lgs.
n. 368 del 2001 è quella che, con specifico riferimento alle causali
“sostitutive”, preclude al datore di lavoro la possibilità di
utilizzare il contratto a tempo determinato per far fronte alla
necessità di sostituire personale in ferie, a maggior ragione quando
manchi, nel documento negoziale, la specificazione del nominativo del
lavoratore sostituito e del motivo della sua assenza.
11. – Si è costituita nell'incidente di costituzionalità Poste
Italiane s.p.a, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o, comunque, infondata.
Ad avviso della società, la clausola di non regresso sarebbe
diretta ad escludere che un arretramento di tutele, in sé pienamente
legittimo, possa fondarsi sul pretesto della apparente necessità di
attuare una direttiva comunitaria.
Che questo sia l'obiettivo del legislatore comunitario emerge con
chiarezza dalle disposizioni contenute nella stessa direttiva
1999/70/CE, la quale, al considerando n. 3, afferma che «la
realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento
delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità
europea» precisando che «Tale processo avverrà mediante il
ravvicinamento di tali condizioni, che costituisca un progresso,
soprattutto per quanto riguarda le forme di lavoro diverse dal lavoro
a tempo indeterminato, come il lavoro a tempo determinato».
Secondo la società resistente dalla lettura delle previsioni del
d.lgs. n. 368 del 2001 emergerebbe che il legislatore nazionale, lungi
dal discostarsi dalle finalità perseguite dall'ordinamento
comunitario, le ha compiutamente realizzate tramite una serie di
previsioni tese ad attuare i precetti di cui alla direttiva
1999/70/CE.
In proposito, la Poste Italiane S.p.A. richiama la sentenza della
Corte di cassazione n. 12985 del 2008 secondo la quale «non può
condividersi la tesi, sostenuta da una parte della dottrina, che, in
base ad una lettura incompleta della direttiva e delle sentenze,
ritiene che il primo ed unico contratto a tempo determinato, di per
sé, sia estraneo all'oggetto della direttiva». A tale considerazione,
la Corte di cassazione perviene valorizzando proprio i “considerando”
della direttiva citata e dell'accordo quadro allegato dai quali
risulta che la direttiva, oltre a stabilire “in particolare” un regime
con riferimento alla parità di trattamento e alla prevenzione degli
abusi derivanti dall'utilizzo di successivi rapporti a tempo
determinato ha una portata “in generale” secondo cui l'accordo quadro,
nello stabilire i princìpi generali e i requisiti minimi relativi al
lavoro a tempo determinato, si riferisce ai contratti e ai rapporti di
lavoro a termine. I giudici di legittimità rimandano infine, alla
lettura del considerando 14, dal quale risulta che le parti contraenti
«hanno voluto concludere un accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato che stabilisce i principi generali ed i requisiti minimi
per i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato», senza
operare una distinzione tra il primo contratto a termine ed i
successivi.
12. – E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
secondo il quale la questione proposta è manifestamente inammissibile
per difetto di motivazione in ordine alla sua rilevanza.
Invero, il rimettente avrebbe omesso di considerare che l'art. 1
del d.lgs. n. 368 del 2001, anche se non riproduce, al comma 1,
l'onere dell'indicazione espressa del nome del lavoratore sostituito e
della causa della sostituzione, introduce tuttavia, al comma 2, un
dovere di specificazione delle ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificano l'apposizione
del termine al contratto di lavoro subordinato. Dunque sarebbe
insufficiente la mera indicazione delle esigenze di sostituzione
temporanea, perché, in forza dell'art. 1, comma 2, devono essere
specificate le circostanze che inducono tali esigenze.
Ad avviso della difesa erariale, questa lettura della norma riduce
sensibilmente, sino quasi ad annullarle, le differenze tra il precetto
contenuto nell'art. 1 della legge n. 230 del 1962 e quello della
disposizione censurata.
Il Presidente del Consiglio dei ministri afferma, poi, che la
questione sarebbe anche infondata.
Innanzitutto, la situazione che questa Corte è chiamata ad
affrontare sarebbe diversa da quella esaminata dalla sentenza n. 44
del 2008, perché le norme denunciate nella presente fattispecie sono
volte a regolare la materia trattata dalla direttiva, e cioè la
prevenzione dell'abuso di contratti a termine.
Inoltre questa Corte, con sentenza n. 41 del 2000, ha già
affermato che, nel recepire la direttiva in esame, il legislatore
nazionale avrebbe mantenuto una considerevole discrezionalità,
potendo, nel rispetto delle scelte di fondo della normativa
comunitaria, modificare le garanzie esistenti.
Orbene, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, l'art. 1 del
d.lgs. n. 368 del 2001 in una certa misura rafforza le garanzie a
tutela del lavoratore, che – diversamente da quanto ritiene il
Tribunale di Trani – non sono significativamente attenuate o
peggiorate dalla mancata previsione dell'onere di indicare il nome del
lavoratore sostituito. Tale opzione normativa ricadrebbe nell'area di
discrezionalità riconosciuta al legislatore interno ed appare coerente
con l'evoluzione del quadro normativo in materia di diritto alla
protezione dei dati personali, che in questo caso investe le
prevalenti esigenze di riservatezza del lavoratore sostituito.
13. – Nel corso del giudizio di appello proposto dalla Eso Strade
s.r.l. avverso la sentenza del Tribunale di Genova che aveva accolto
la domanda di C. Z. diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del
termine apposto al proprio contratto di lavoro, in violazione
dell'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, la Corte di appello di Genova
ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo
comma, Cost. (r.o. n. 441 del 2008).
La Corte rimettente afferma che il contratto dedotto in giudizio
non specifica la ragione utile a giustificare l'apposizione del
termine, con la conseguenza che, dovendosi ritenere illegittimo il
termine medesimo, occorrerebbe affermare la conversione del contratto
da tempo determinato a tempo indeterminato.
Sennonché, una tale conseguenza è impedita dalla norma censurata
la quale, con riferimento ai giudizi in corso al momento della sua
entrata in vigore, consente soltanto l'erogazione di un indennizzo a
favore del lavoratore.
Ad avviso del giudice a quo, tale disposizione contrasta
con l'art. 3 Cost., perché sostituisce al regime codicistico della
nullità parziale (art. 1419 cod. civ.) una disciplina che riguarda
però solo i contratti a termine per i quali è in corso un giudizio al
momento della sua entrata in vigore. Nel fare ciò, il legislatore ha
introdotto una diversità delle conseguenze del termine illegittimo
ancorata alla circostanza del tutto casuale che il lavoratore abbia o
meno iniziato il giudizio.
La norma denunciata si porrebbe inoltre in contrasto con l'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU, il quale
impone al potere legislativo di non intromettersi nell'amministrazione
della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una
controversia o di una data categoria di controversie in atto. Nella
fattispecie vengono modificati per factum principis i diritti
sostanziali a tutela dei quali si è agito in giudizio, senza che
ricorrano quelle imperiose esigenze d'interesse generale richieste
dalla CEDU come condizione per superare il divieto d'ingerenza.
14. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituito il
lavoratore appellato, aggiungendo alle argomentazioni dell'ordinanza
di rimessione il rilievo che la norma impugnata crea gravi
inconvenienti anche nel caso di procedimenti i quali, alla data della
sua entrata in vigore, erano pendenti davanti alla Corte di cassazione
che li aveva già decisi con sentenza in attesa di pubblicazione.
La norma, poi, sarebbe foriera di discriminazioni fra i
lavoratori, a seconda che i datori di lavoro siano o meno già
costituiti nelle cause pendenti; infatti, solamente in caso di
contumacia della controparte i lavoratori potrebbero rinunziare agli
atti del giudizio – non abbisognando, ai sensi dell'art. 306 del
codice di procedura civile, dell'accettazione del datore di lavoro
convenuto – e ripresentare la medesima domanda giudiziale,
sottraendosi così alla disciplina penalizzante introdotta dall'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001.
Né tali discriminazioni potrebbero trovare giustificazione
nell'esigenza di regolare una situazione di “assoluta necessità” quale
quella positivamente apprezzata dalla sentenza n. 419 del 2000 di
questa Corte.
15. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel
giudizio di costituzionalità ed ha eccepito l'irrilevanza della
questione, osservando che alla conversione del contratto a termine in
contratto a tempo indeterminato può pervenirsi solo dopo aver
verificato che, una volta scaduto il termine illegittimo,
l'interruzione della prestazione lavorativa non sia dipesa da mutuo
consenso tra le parti del rapporto, circostanza, questa, desumibile
anche dalla brevità del rapporto di lavoro e dal lungo lasso di tempo
intercorso tra la cessazione della prestazione e la domanda giudiziale
diretta ad ottenere la conversione. Nella fattispecie oggetto del
giudizio principale, il ricorso con il quale è stata richiesta la
conversione è stato depositato dopo un anno e un mese dalla cessazione
del rapporto.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è
infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel
giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub
n. 8).
16. – Nel corso di due giudizi promossi da altrettanti lavoratori
al fine di ottenere, previo accertamento dell'illegittimità del
termine apposto ai rispettivi contratti di lavoro e delle relative
proroghe, la condanna del datore di lavoro al ripristino dei rapporti
di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni nel frattempo maturate,
il Tribunale di Ascoli Piceno, con due distinte ordinanze (r.o. nn.
442 e 443 del 2008), ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per
contrasto con gli artt. 3, 11 e 117, primo comma, della Costituzione.
Secondo il rimettente, i contratti oggetto dei giudizi principali
sono privi di idonea indicazione delle ragioni della apposizione del
termine e delle relative proroghe.
Secondo il giudice a quo, pertanto, applicando la legge
vigente al momento della instaurazione del rapporto e della
introduzione del giudizio, si dovrebbe dichiarare la conversione del
primo dei contratti a termine in contratto a tempo indeterminato e
condannare il convenuto al ripristino del rapporto. L'entrata in
vigore dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001
precluderebbe, tuttavia, una pronuncia di tal fatta, ma la norma
sarebbe lesiva del canone di ragionevolezza desumibile dall'art. 3,
primo comma, Cost., e non ispirata da preminenti ed eccezionali
ragioni di interesse generale.
Inoltre essa colliderebbe anche con il principio di uguaglianza
enunciato dall'art. 3 Cost., perché introduce un'evidente disparità di
trattamento fra i lavoratori assunti a tempo determinato in violazione
delle condizioni previste dagli artt. 1, 2 e 4, del d.lgs. n. 368 del
2001 che abbiano avviato una controversia prima del 23 agosto 2008 e
non l'abbiano vista ancora definita con sentenza passata in giudicato,
ed i lavoratori che, versando nella identica situazione, abbiano
promosso la controversia successivamente alla suddetta data.
Infine, il Tribunale di Ascoli Piceno sostiene che l'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001 lederebbe gli artt. 11, secondo periodo, e
117, primo comma, Cost., perché esso, riducendo la tutela accordata in
precedenza dall'ordinamento ai lavoratori assunti con contratto a
tempo determinato, viola la clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro
sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE e,
conseguentemente, l'obbligo del legislatore interno di rispettare i
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario ed internazionale.
17. – Nei due giudizi di costituzionalità è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano
dichiarate manifestamente inammissibili o manifestamente infondate.
Secondo la difesa erariale, le questioni sarebbero inammissibili a
causa della insufficiente motivazione della rilevanza, in relazione
all'affermazione secondo cui si verterebbe in casi nei quali,
accertata l'illegittimità del termine, si dovrebbe pronunciare la
conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il che
sarebbe impedito soltanto dall'operatività dell'art. 4-bis del
d.lgs. n. 368 del 2001.
Ad avviso della medesima difesa, le questioni sarebbero, comunque,
infondate nel merito.
In particolare, con riferimento alla presunta violazione degli
artt. 11 e 117 Cost., il Presidente del Consiglio dei ministri rileva
che la norma censurata non è stata introdotta in attuazione della
direttiva 1999/70/CE, essendo quindi estranea all'ambito del divieto
di reformatio in peius stabilito dalla clausola 8, punto 3,
dell'accordo quadro da essa recepito.
Rispetto alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost., invece, la
difesa erariale deduce i medesimi argomenti svolti nell'atto di
intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v.,
supra, sub n. 8).
18. – Nel corso di un giudizio promosso da A. D. G. contro il
Teatro stabile del Friuli-Venezia Giulia al fine di ottenere
l'annullamento del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati
con il convenuto, l'accertamento della sussistenza di un rapporto a
tempo indeterminato a far data dal 1° gennaio 2002 e, in via
subordinata, la condanna del Teatro stabile del Friuli al risarcimento
dei danni per tutto il periodo di mancata prestazione del lavoro, il
Tribunale di Trieste ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, per
contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. (r.o. n. 4 del
2009).
Circa il primo dei due predetti parametri costituzionali, il
giudice a quo ritiene che la norma censurata abbia introdotto
una normativa non riguardante tutti i rapporti a termine stipulati ad
una certa data, ma soltanto quelli per i quali il giudizio è in corso,
penalizzando così coloro che hanno sollecitamente adìto il giudice a
tutela dei propri diritti.
La disposizione – a giudizio del rimettente – non è neanche idonea
a realizzare lo scopo per il quale era stata introdotta, dal momento
che essa concerne soltanto il contenzioso in essere e non tutto quello
potenziale. Essa, poi, non è giustificata da interessi
costituzionalmente rilevanti, né dalle dimensioni dell'impresa
interessata.
Quanto all'art. 117, primo comma, Cost., il Tribunale di Trieste
sostiene che esso sarebbe violato perché la norma censurata si pone in
contrasto con l'art. 6 della CEDU, il quale impedisce al legislatore
di intervenire con norme ad hoc per la risoluzione di
controversie in corso.
19. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituito l'attore
nella causa principale, riportandosi ai motivi espressi dalla
ordinanza di rimessione.
20. – E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha eccepito preliminarmente l'inammissibilità della questione,
osservando che l'ipotesi della risoluzione del rapporto di lavoro per
mutuo consenso andrebbe sempre verificata preliminarmente ed esclusa,
prima di affermare l'applicabilità dell'art. 4-bis del d.lgs.
n. 368 del 2001 alla fattispecie concreta.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è
infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel
giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub
n. 8).
21. – E' intervenuta anche l'Associazione “Articolo 21 Liberi di”,
che ha concluso per la fondatezza della questione di legittimità
costituzionale.
22. – Nel corso del giudizio d'appello proposto da A.R. contro la
sentenza con la quale il Tribunale di Trani aveva respinto il suo
ricorso diretto ad ottenere, previa declaratoria della nullità del
termine apposto al contratto in questione, fosse dichiarato che fra le
parti si era instaurato ab origine un contratto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato e che la società convenuta fosse
condannata a riammetterla in servizio ed al pagamento di tutte le
retribuzioni maturate dal momento in cui aveva posto le proprie
attività a disposizione del datore di lavoro, la Corte d'appello di
Bari ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3 e 117,
primo comma, Cost. (r.o. n. 12 del 2009).
La Corte rimettente premette che, ove dovesse ritenersi fondata la
tesi del lavoratore appellante circa la genericità della formula
adottata nel contratto di lavoro stipulato dalle parti al fine di
indicare le ragioni sostitutive poste a giustificazione
dell'apposizione del termine, quest'ultima clausola dovrebbe ritenersi
nulla. Pertanto, in ipotesi, il contratto di lavoro dedotto nel
giudizio principale dovrebbe essere considerato a tempo indeterminato
sin dall'inizio.
Tuttavia una simile conseguenza è impedita dall'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001, norma che però, ad avviso del giudice a
quo, è contraria al principio di eguaglianza di cui all'art. 3
Cost.
Infatti, ove mai altro lavoratore nelle stesse identiche
condizioni dell'appellante nel giudizio principale facesse valere le
stesse ragioni di illegittimità con un giudizio introdotto
successivamente alla data di entrata in vigore dell'art. 4-bis,
del d.lgs. n. 368 del 2001, avrebbe diritto alla riassunzione, non
essendo a lui applicabile l'art. 4-bis medesimo.
La norma censurata sembra alla Corte rimettente in contrasto anche
con il principio dell'affidamento legittimamente posto dal cittadino
sulla certezza dell'ordinamento giuridico quale elemento essenziale
dello Stato di diritto.
Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata contrasta,
altresì, con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6
della CEDU.
23. – Si è costituita nel giudizio di costituzionalità la
lavoratrice A. R., chiedendo l'accoglimento della questione, per
motivi analoghi a quelli svolti nelle ordinanze di rimessione.
24. – Si è costituita anche la Poste Italiane S.p.A. che ha
chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente
infondata.
Secondo la società, l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001
è norma avente natura transitoria, espressione di un ragionevole
esercizio della discrezionalità del legislatore. Essa, lungi
dall'introdurre una diversità di trattamento per lavoratori che si
trovino nella medesima situazione, riporta ad equità il contenzioso
sui contratti a termine, disciplinando le conseguenze di eventuali
violazioni in tutti i casi in cui l'eventuale cumulo dei contratti a
termine non abbia superato i trentasei mesi (fattispecie prevista
dall'art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001). Il
legislatore sarebbe intervenuto per porre fine al contrasto
giurisprudenziale circa la possibile applicazione dell'art. 1419,
primo comma, cod. civ., chiarendo – per il futuro – il regime
sostanziale e l'apparato sanzionatorio.
Inoltre, l'effetto della disposizione, limitato «ai soli giudizi
in corso alla data di entrata in vigore» della legge n. 133 del 2008,
evidenzia l'adesione del legislatore al prevalente orientamento
giurisprudenziale, di legittimità e di merito, per cui non può darsi
per esistente una volontà di prosecuzione del rapporto di lavoro in
capo a colui che pretende di esserne parte dopo un cospicuo lasso di
tempo, decorso dallo spirare del termine in questione. Nell'ottica del
legislatore i giudizi non in corso alla data di entrata in vigore
della norma censurata si dovrebbero concludere con il rigetto del
ricorso per risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso.
Quanto alla pretesa lesione dell'art. 117, primo comma, Cost., la
società eccepisce l'inammissibilità della questione per difetto di
motivazione, non potendosi comprendere in che modo, con l'introduzione
della norma di cui si discute, sia stata limitata la funzione
giurisdizionale. Il contratto a termine oggetto del «giudizio in
corso» è comunque soggetto al sindacato giudiziale cui compete
l'accertamento della legittimità del contratto stesso, senza alcuna
compromissione del libero esercizio della funzione giurisdizionale.
25. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, il quale reputa insufficiente la motivazione
della rilevanza in relazione all'affermazione secondo cui, nel caso in
esame, si verterebbe in un'ipotesi in cui, accertata l'illegittimità
del termine, si dovrebbe pronunciare la conversione in rapporto di
lavoro a tempo indeterminato, e ciò sarebbe impedito soltanto
dall'operatività dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è
infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel
giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub
n. 8).
26. – Nel corso di un giudizio promosso dalla Airri Medical con
reclamo avverso l'ordinanza pronunciata ai sensi dell'art. 700 del
codice di procedura civile dal Tribunale di Viterbo con la quale le
era stato ordinato di riammettere in servizio C. L. da essa occupata
da alcuni anni ed ininterrottamente come fisioterapista, in virtù di
reiterati contratti a termine, il Tribunale di Viterbo ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del
d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3, primo comma,
24, secondo comma, 101, 102, secondo comma, 104, secondo comma, e 117,
primo comma, della Costituzione (r.o. n. 22 del 2009).
Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe l'art. 3
Cost., perché il legislatore avrebbe introdotto una regolamentazione
delle conseguenze scaturenti dalla illegittimità dell'apposizione del
termine che riguarda non tutti i contratti a termine stipulati ad una
certa data, ma solamente quelli per i quali è in corso un giudizio;
per tutti i contratti per i quali non era pendente un giudizio alla
data di entrata in vigore della legge, stipulati prima o
successivamente a tale data, le conseguenze continuano ad essere
invece quelle derivanti dall'azione di annullamento parziale.
Sennonché, se scopo della disposizione è quello di sottrarre alle
aziende i costi che derivano dalla illegittimità dei contratti a
termine, allora non sarebbe dato comprendere il discrimine temporale
volto a includere i soli contenziosi in essere e non tutto il
potenziale contenzioso. La norma penalizzerebbe proprio chi,
comportandosi lealmente, non ha atteso anni ma ha iniziato sùbito la
causa, finendo col premiare invece coloro che hanno tardato a
promuovere il contenzioso.
Inoltre la differenziazione di regime non sarebbe finalizzata a
realizzare interessi costituzionalmente rilevanti e non si fonda
neppure sulle dimensioni dell'impresa. In sostanza, tra i lavoratori a
tempo determinato verrebbe enucleata una quota (quelli che avevano un
giudizio pendente) che viene sottratta alla tutela ordinaria accordata
a tutti gli altri lavoratori (che non avevano ancora iniziato la causa
e che costituiscono il tertium comparationis nella valutazione
della violazione del principio di eguaglianza).
Ad avviso del Tribunale di Viterbo l'art. 4-bis del d.lgs.
n. 368 del 2001 violerebbe anche gli artt. 3, primo comma, e 24 Cost.,
per contrasto con il generale principio dell'affidamento
legittimamente posto dal cittadino sulla certezza dell'ordinamento
giuridico.
Sarebbero lesi, poi, gli artt. 101, 102, secondo comma, e 104,
primo comma, Cost., poiché un intervento legislativo concernente
solamente alcuni giudizi in corso ad una certa data è privo del
carattere di astrattezza proprio delle norme giuridiche ed assume un
carattere provvedimentale generale invasivo dell'àmbito riservato alla
giurisdizione.
Infine, il rimettente denuncia la violazione dell'art. 117, primo
comma, Cost., in connessione con l'art. 6 della CEDU, il quale
impedisce al legislatore di intervenire con norme ad hoc per la
risoluzione di controversie in corso.
27. – E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha eccepito l'irrilevanza della questione o, comunque, l'insufficiente
motivazione della rilevanza. Infatti, secondo quanto riferito dal
rimettente, la lavoratrice ricorrente ha chiesto ed ottenuto in via
d'urgenza la riammissione nel posto di lavoro «dalla medesima occupato
da alcuni anni e ininterrottamente come fisioterapista, in virtù di
reiterati contratti a termine». Se questa è la fattispecie oggetto di
causa, sembra probabile che ad essa si applichi l'art. 5 del d.lgs. n.
368 del 2001, ipotesi esclusa dall'àmbito di operatività dell'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è
infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel
giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v., supra, sub
n. 8).
28. – Con sei ordinanze (r.o nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del 2009)
di identico contenuto, pronunciate in altrettanti giudizi promossi
contro la Poste Italiane S.p.A. aventi ad oggetto la legittimità
dell'apposizione del termine ai contratti di lavoro stipulati dai
lavoratori attori, il Tribunale di Milano ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368
del 2001.
Il rimettente deduce la violazione: a) dell'art. 3 Cost.,
per la disparità di trattamento tra coloro che hanno già ottenuto una
sentenza passata in giudicato o che promuoveranno un giudizio dopo
l'entrata in vigore della nuova disposizione e coloro che, invece,
anche a parità assoluta di situazioni di fatto, si trovano compresi in
tale forbice temporale; b) dell'art. 10 Cost., poiché il
principio di parità di trattamento è principio generale del diritto
internazionale che gli Stati membri si sono obbligati a rispettare,
con conseguente violazione dell'art. 117 Cost.; c) del divieto
di non regresso posto dalla direttiva 1999/70/CE, atteso che la norma
censurata, emanata in esecuzione di tale direttiva, costituisce un
evidente arretramento di tutela dei lavoratori, rispetto allo
standard comunitario; d) dell'art. 6 della CEDU, il quale,
nell'affermare che ogni persona ha diritto ad un giusto processo
dinanzi ad un tribunale indipendente e imparziale, vieta al potere
legislativo di intromettersi nell'amministrazione della giustizia allo
scopo di influire nella risoluzione di una controversia o di una
determinata categoria; e) dell'art. 24 Cost., avendo la norma
censurata compromesso il diritto di difesa dei ricorrenti, sottraendo
loro la possibilità di ottenere il vantaggio della conversione del
contratto irregolare, la cui prospettiva aveva direttamente
condizionato l'esercizio del loro diritto di azione.
29. – In tutti i giudizi di costituzionalità si sono costituiti i
lavoratori ricorrenti nei giudizi a quibus, i quali hanno
condiviso integralmente le motivazioni delle ordinanze di rimessione
ed hanno segnalato che durante i lavori parlamentari erano state
manifestate da più parti forti riserve circa la legittimità della
norma impugnata.
30. – Anche Poste Italiane s.p.a. si è costituita in tutti i
giudizi di costituzionalità ed ha chiesto che le questioni siano
dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.
Circa le dedotte violazioni degli artt. 3 e 117, primo comma,
Cost., la società ha svolto argomentazioni analoghe a quelle contenute
nell'atto di costituzione nel giudizio relativo all'ordinanza della
Corte di appello di Bari (v., supra, n. 24).
Con riferimento alla denunciata lesione dell'art. 10 Cost., Poste
Italiane s.p.a. afferma che la norma censurata è razionale e non vìola
il principio di uguaglianza, poiché il diverso trattamento dei
lavoratori che non avevano una causa pendente al momento della sua
entrata in vigore si giustifica con l'esigenza di tutela
dell'interesse generale al buon andamento dell'economia del Paese.
Quanto, infine, alla pretesa violazione dell'art. 24 Cost.,
anch'essa, ad avviso della società, è insussistente, perché l'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001 non vieta, né limita il diritto dei
lavoratori di agire in giudizio.
31. – In tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo, che la questione sia dichiarata manifestamente
inammissibile o infondata.
Ad avviso della difesa erariale le questioni sarebbero
inammissibili perché i rimettenti non formulano indicazioni circa le
vicende dei rapporti di lavoro, né spiegano per quale motivo – nelle
fattispecie in esame – non si potrebbe ritenere che i rapporti di
lavoro si siano estinti per mutuo consenso. Le questioni sollevate in
riferimento agli artt. 10 e 117 Cost. sarebbero, poi, ulteriormente
inammissibili perché non rientra tra i poteri del giudice nazionale
interpretare in via definitiva il diritto comunitario.
Nel merito, il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che
non sussiste le pretesa violazione degli artt. 10 e 117, primo comma,
Cost., in rapporto alla clausola di non regresso, poiché, da un lato,
la direttiva 1999/70/CE non si occupa delle conseguenze
dell'illegittima apposizione del termine e, dall'altro lato,
l'introduzione di una specifica disposizione, prima mancante, relativa
a quelle conseguenze completa il sistema di tutela e non ne determina
un arretramento.
Circa le denunciate lesioni dell'art. 3 Cost. e dei principi sulla
tutela giurisdizionale, la difesa erariale sostiene che esse sono
insussistenti, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel
giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v. supra, sub
n. 8).
32. – Nel corso del giudizio di appello proposto da C.A. avverso
la sentenza con la quale il Tribunale di Gela aveva respinto la sua
domanda volta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine
apposto al contratto di lavoro stipulato con la Poste Italiane S.p.A.
e la conversione del contratto come contratto a tempo indeterminato,
la Corte di appello di Caltanissetta ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368
del 2001, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della
Costituzione (r.o. n. 43 del 2009).
In relazione alla rilevanza della questione, rileva la Corte
rimettente che, per effetto della norma censurata, non sarebbe più
possibile stabilizzare il rapporto della lavoratrice.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice
a quo osserva che: a) in relazione all'art. 3 Cost.,
l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 introduce
un'irragionevole disparità di trattamento tra i lavoratori collegata
al solo dato temporale della data di proposizione del ricorso; b)
in relazione all'art. 24 Cost., costituisce ius receptum il
principio secondo cui la sovrana volontà del legislatore di emanare
una norma incontra una serie di limiti attinenti alla salvaguardia di
fondamentali valori di civiltà giuridica tra cui il rispetto
dell'affidamento legittimamente sorto negli interessati in ordine ad
un determinato assetto giuridico, nella fattispecie «stravolto in
corso di causa, con una indebita limitazione del diritto di difesa per
coloro che hanno giudizi in corso»; c) la norma censurata si
pone in conflitto con l'art. 6 della CEDU (con conseguente violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost.), il quale impone
all'amministrazione della giustizia di uno Stato di non influire con
norme ad hoc nella risoluzione di controversie in corso.
33. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituita Poste
Italiane s.p.a. che ha chiesto che le questioni siano dichiarate
inammissibili o manifestamente infondate, svolgendo argomentazioni
analoghe a quelle contenute nell'atto di costituzione nel giudizio
relativo all'ordinanza della Corte di appello di Bari (v. supra,
n. 24).
34. – E' intervenuto nel giudizio di costituzionalità il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito
l'inammissibilità della questione, perché il rimettente non ha
verificato se nella fattispecie il rapporto di lavoro si sia estinto
per mutuo consenso.
Nel merito la difesa erariale sostiene che la questione è
infondata, per i motivi già indicati nell'atto di intervento nel
giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del 2008 (v. supra, sub
n. 8).
35. – Nel corso di un giudizio instaurato da M. V. nei confronti
di Poste Italiane s.p.a., per ottenere l'annullamento del termine
apposto al proprio contratto di lavoro, con conseguente conversione
del proprio rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato sin
dalla data di assunzione, il Tribunale di Teramo ha sollevato
questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del
d.lgs. n. 368 del 2001, per violazione degli artt. 3 e 117, primo
comma, Cost. (r.o. n. 70 del 2009).
Rileva il rimettente che la norma censurata è priva di
razionalità, poiché, ove un altro lavoratore, nelle stesse condizioni
della attrice nel giudizio principale, facesse valere le stesse
ragioni di illegittimità in una causa introdotta in data successiva
all'entrata in vigore del citato art. 4-bis, quel lavoratore
avrebbe diritto alla riassunzione, e non all'indennità prevista dalla
norma censurata, non essendo a lui applicabile la nuova disciplina.
Inoltre, per effetto del menzionato art. 4-bis, paradossalmente
è penalizzato proprio colui che ha già fatto ricorso al giudice, di
modo che la norma è irragionevolmente punitiva nei confronti di chi ha
mostrato di voler reagire prontamente ad una violazione di legge.
Secondo il rimettente, la norma censurata si pone in contrasto
anche con il generale principio dell'affidamento legittimamente
assunto dal cittadino sulla certezza e sicurezza del diritto, quale
elemento essenziale di uno Stato di diritto, più volte valorizzato da
questa Corte.
Quanto all'art. 117, primo comma, Cost., in connessione con l'art.
6 della CEDU, osserva il Tribunale di Teramo che la norma impugnata
comporta una indebita intromissione del legislatore nazionale
nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla
risoluzione di una controversia o di una determinata categoria di
controversie.
36. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituita Poste
Italiane s..p.a., la quale ha eccepito l'inammissibilità o
l'infondatezza della questione, invocando, preliminarmente, l'ampia
sfera di discrezionalità propria del legislatore nell'innovare alla
disciplina vigente e, per il resto, ribadendo quanto esposto nella
memoria di costituzione depositata in relazione all'ordinanza della
Corte di appello di Bari (v., supra, n. 24).
37. – E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ribadendo
le medesime argomentazioni formulate nei confronti dell'ordinanza n.
427 del 2008 (v. supra, sub n. 8).
38. – Nel corso di un giudizio di appello, proposto da Poste
Italiane s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Verona che aveva
accertato l'illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro
stipulato con S.R. e condannato la società al ripristino del rapporto
di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno della
messa in mora, la Corte di appello di Venezia ha sollevato questione
di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368
del 2001, per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost. (r.o. n.
93 del 2009).
La Corte rimettente, premesso che il termine apposto al contratto
di lavoro dedotto nel giudizio principale è nullo per contrasto con
l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 e che dunque, nella fattispecie
occorre far applicazione dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del
2001, sostiene che quest'ultima disposizione viola: a) l'art. 3
Cost., poiché è introduttiva di irragionevoli disparità di trattamento
tra lavoratori che hanno stipulato un contratto a termine in pari
data; b) l'art. 24 Cost., perché lede il diritto all'azione
proprio nei confronti dei più solleciti nell'esercitarlo; c)
l'art. 111 Cost., per aver, nel corso del procedimento giudiziario,
modificato la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato, in
assenza di motivi oggettivi o di imperiose ragioni di interesse
generale; d) l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione
all'art. 6 della CEDU, il quale impedisce al legislatore di
intervenire con norme ad hoc per la risoluzione di controversie
in corso.
39. – E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
invoca la declaratoria di manifesta inammissibilità della questione,
perché la Corte rimettente non ha verificato se nella fattispecie il
rapporto si sia estinto per mutuo consenso.
Nel merito, la difesa erariale sostiene la manifesta infondatezza
della questione sulla base delle stesse argomentazioni esposte
nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del
2008 (v. supra, sub n. 8).
40. – Nel corso di un giudizio di appello proposto da Poste
Italiane s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Lanciano relativa
al risarcimento del danno spettante ad J.C., assunto con contratto a
termine, la Corte di appello di L'Aquila ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368
del 2001 per contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 117, primo
comma, Cost. (r.o. n. 95 del 2009).
La Corte rimettente afferma che la norma censurata lede il
principio di uguaglianza sia con riferimento alla posizione dei
soggetti che svolgono attività economica (unica beneficiata dalla
disposizione in esame essendo la Poste Italiane S.p.A.), sia con
riferimento ai lavoratori (irrazionalmente discriminati in base alla
mera pendenza del processo).
Invece la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., che impone
al legislatore nazionale di rispettare i vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali,
deriverebbe dal contrasto dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del
2001 con la clausola di non regresso prevista dalla clausola 8, punto
3, dell'accordo quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE e con
l'art. 6 della CEDU che vieta interventi legislativi diretti a
favorire una delle parti in causa.
41. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituita Poste
Italiane s.p.a., eccependo l'inammissibilità, o la manifesta
infondatezza della questione, riproponendo sostanzialmente le
argomentazioni già svolte nelle memorie depositate in relazione ad
altre ordinanze di rimessione, più sopra riassunte.
In particolare, quanto all'art. 117 Cost., la società sostiene che
la Corte rimettente avrebbe dovuto disapplicare la normativa
censurata, in quanto contrastante con la clausola di non regresso
contenuta nella direttiva del 1999, o quanto meno avrebbe dovuto
esperire il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Quanto, poi, all'art. 6 della CEDU, la deducente eccepisce
l'inammissibilità della questione per carenza di motivazione, non
comprendendosi in che modo la norma censurata comprimerebbe
l'esercizio della funzione giurisdizionale.
42. – E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha eccepito l'inammissibilità della questione, perché l'ordinanza di
rimessione è del tutto priva di indicazioni di fatto circa le vicende
del rapporto controverso (durata del contratto, singolo contratto o
reiterazione di contratti, intervallo tra l'uno e l'altro contratto
seguente, data di proposizione del ricorso).
Inoltre la questione sollevata per asserito contrasto con la
clausola comunitaria di non regresso sarebbe inammissibile anche
perché il giudice a quo non ha preventivamente acquisito dalla
Corte di giustizia l'interpretazione pregiudiziale della norma
censurata.
Nel merito la difesa erariale sostiene l'infondatezza della
questione, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle contenute negli
atti di intervento nei giudizi relativi alle ordinanze pronunciate dal
Tribunale di Milano (v. supra, sub n. 31).
43. – Nel corso del giudizio di appello promosso da G.C. contro la
sentenza con la quale il giudice di primo grado aveva respinto la sua
domanda volta ad ottenere l'accertamento della nullità del termine
apposto al contratto di lavoro stipulato con la Poste Italiane S.p.A.
e la declaratoria dell'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato dal 4 ottobre 2003, o in subordine, per il ripristino
del rapporto e la condanna della società datrice di lavoro alla
corresponsione delle retribuzioni mensili maturate, anche a titolo
risarcitorio, fino all'effettiva reintegrazione, la Corte d'appello di
Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001, per contrasto con gli artt. 3, 24, primo
comma, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost. (r.o. n. 102 del
2009).
Ad avviso della Corte rimettente, la clausola appositiva del
termine di scadenza al contratto di lavoro dedotto in giudizio non
reca gli elementi di specificazione che ne legittimano l'apposizione e
pertanto, in base ai princìpi generali in materia di nullità parziale
del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale,
all'illegittimità del termine, consegue l'invalidità parziale relativa
alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato.
Tali conseguenze della eventuale declaratoria di illegittimità del
contratto sarebbero tuttavia precluse per effetto dell'entrata in
vigore della norma censurata, la quale, però, violerebbe, in primo
luogo, l'art. 3 Cost., poiché il legislatore non ha regolato
diversamente – come bene avrebbe potuto – gli effetti di tutti i
contratti stipulati da una certa data in poi, ma ha scelto, in maniera
del tutto irragionevole, di modificare la disciplina sostanziale
rispetto ad una categoria di soggetti, riducendone la tutela mentre
pendono i giudizi e solo per il fatto di avere una causa in corso.
Quanto al contrasto con gli artt. 24, primo comma, 111, primo
comma, e 117, primo comma, Cost., l'art. 4-bis del d.lgs. n.
368 del 2001 violerebbe il principio costituzionale del giusto
processo, perché, nel corso del procedimento giudiziario, ha
modificato la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato senza
che siano ravvisabili ragioni oggettive e generali che sostengano tale
scelta legislativa.
Inoltre la norma censurata determina un'alterazione della
condizione di parità nell'esercizio del diritto di difesa tra la parti
in causa, perché il legislatore è intervenuto allo scopo di favorire
una definizione delle controversie pendenti in termini di minor
impatto economico per le parti datoriali, senza che tale scelta sia
sorretta da imperiose ragioni d'interesse generale.
Ciò in contrasto anche con l'art. 6 della CEDU (e conseguente
violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.) secondo il quale gli
Stati aderenti alla Convenzione devono astenersi dall'esercitare
ingerenze normative finalizzate ad ottenere una determinata soluzione
delle controversie in corso.
44. – Costituitosi nel giudizio di costituzionalità, il lavoratore
ha invocato l'accoglimento della sollevata questione, riproponendo
gran parte delle argomentazioni tratte dall'ordinanza di rimessione,
in riferimento a tutti i parametri costituzionali ivi considerati.
Il ricorrente denuncia, in aggiunta, la violazione degli artt. 77,
101, 102, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione.
45. – Si è costituita in giudizio anche Poste Italiane s.p.a. che
ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o
manifestamente infondata.
La società sostiene che l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del
2001 non è irragionevole, essendo finalizzata ad arginare,
nell'interesse generale, l'eccessivo ampliamento dell'organico delle
imprese dovuto alla conversione a tempo indeterminato di numerosi
contratti di lavoro a termine.
La ragionevolezza della previsione normativa è confermata dal suo
carattere temporaneo ed eccezionale e dalla razionalità del modello
sanzionatorio da essa previsto che realizza un equilibrato
contemperamento dei contrapposti interessi in gioco.
Neppure sussisterebbe violazione dell'art. 24 Cost., perché la
norma censurata non pone alcun divieto o limite al diritto dei
lavoratori di agire in giudizio.
46. – E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,
il quale ha eccepito l'inammissibilità della questione, perché la
Corte rimettente non ha verificato se nella fattispecie il rapporto si
sia estinto per mutuo consenso.
Nel merito, la difesa erariale sostiene la manifesta infondatezza
della questione sulla base delle stesse argomentazioni esposte
nell'atto di intervento nel giudizio relativo all'ordinanza n. 427 del
2008 (v., supra, sub n. 8).
47. – In prossimità dell'udienza di discussione hanno depositato
memorie i lavoratori costituiti nei giudizi relativi alle ordinanze nn.
434 e 441 del 2008 e 4, 12, 26, 27, 86, 87 e 102 del 2009, la Poste
Italiane S.p.A. nei giudizi relativi alle ordinanze nn. 217, 413 e 434
del 2008, 12, 25, 26, 27, 28, 43, 70, 86, 87, 93, 95 e 102 del 2009 ed
il Presidente del Consiglio dei ministri nei giudizi relativi alle
ordinanze nn. 413 e 434 del 2008, 4, 12, 25, 26, 27, 28, 43, 70, 86,
87, 93, 95 e 102 del 2009.
Tutte le parti insistono nelle conclusioni già rassegnate nei
rispettivi precedenti scritti difensivi.
Considerato in diritto
1. – Con separate ordinanze, le Corti di appello di Torino,
Genova, Bari, Caltanissetta, Venezia, L'Aquila e Roma ed i Tribunali
di Roma, Trani, Ascoli Piceno, Trieste, Viterbo, Milano e Teramo hanno
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 11, 24, 76, 77, 101, 102,
104, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, 2, comma 1-bis,
4-bis ed 11 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368
(Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul
lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES).
2. – La parziale identità di molte delle questioni proposte e
l'appartenenza di tutte le norme censurate allo stesso testo normativo
rendono opportuna la riunione dei giudizi al fine della loro decisione
con un'unica sentenza.
3. – I Tribunali di Roma (r.o. n. 413 del 2008) e di Trani (r.o.
n. 434 del 2008) dubitano, in particolare, della legittimità degli
artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del 2001.
La prima delle predette norme stabilisce che «È consentita
l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro
subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo,
organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria
attività del datore di lavoro» [le parole «, anche se riferibili alla
ordinaria attività del datore di lavoro», sono state aggiunte
dall'art. 21, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008 n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione,
la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la
perequazione tributaria), convertito dalla legge 6 agosto 2008, n.
133].
L'art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, invece, dispone, al comma 1,
l'abrogazione, tra l'altro, dell'intera legge 18 aprile 1962, n. 230
(Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), la quale,
all'art. 1, secondo comma, lettera b), consentiva l'apposizione
del termine al contratto di lavoro subordinato «quando l'assunzione
abbia luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste
il diritto alla conservazione del posto, sempreché nel contratto di
lavoro a termine sia indicato il nome del lavoratore sostituito e la
causa della sua sostituzione».
Ad avviso dei rimettenti, le norme censurate, nel sopprimere
l'art. 1, secondo comma, lettera b), della legge n. 230 del
1962 e, quindi, nell'abolire l'onere dell'indicazione del nominativo
del lavoratore sostituito quale condizione di liceità dell'assunzione
a tempo determinato di altro dipendente, violerebbero l'art. 77 Cost.,
poiché la legge di delega 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per
l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle
Comunità Europee - Legge comunitaria 2000), in esecuzione della quale
è stato emanato il d.lgs. n. 368 del 2001, attribuiva al Governo
esclusivamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, la quale
non conteneva alcuna disposizione in tema di presupposti per
l'apposizione delle clausole del termine. Sussisterebbe contrasto,
poi, con l'art. 76 Cost., poiché la menzionata legge n. 422 del 2000
non prevedeva princìpi direttivi ulteriori rispetto all'attuazione
della direttiva 1999/70/CE la quale, alla clausola 8, punto 3,
dell'accordo quadro da essa recepito, dispone che l'applicazione
dell'accordo non può costituire un motivo per ridurre il livello
generale di tutela offerto ai lavoratori nell'àmbito coperto
dall'accordo stesso, mentre le disposizioni censurate, eliminando la
necessità dell'indicazione del nominativo del lavoratore sostituito,
determinerebbero un arretramento della tutela garantita ai lavoratori
dal precedente regime. Infine, ad avviso del solo Tribunale di Roma,
sarebbe leso anche l'art. 117, primo comma, Cost., per violazione dei
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
3.1. – La questione non è fondata nei termini di seguito
precisati.
Entrambi i rimettenti omettono di considerare adeguatamente che
l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, dopo aver stabilito, al comma 1,
che l'apposizione del termine al contratto di lavoro è consentita a
fronte di ragioni di carattere (oltre che tecnico, produttivo e
organizzativo, anche) sostitutivo, aggiunge, al comma 2, che
«L'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta,
direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono
specificate le ragioni di cui al comma 1».
L'onere di specificazione previsto da quest'ultima disposizione
impone che, tutte le volte in cui l'assunzione a tempo determinato
avvenga per soddisfare ragioni di carattere sostitutivo, risulti per
iscritto anche il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua
sostituzione. Infatti, considerato che per “ragioni sostitutive” si
debbono intendere motivi connessi con l'esigenza di sostituire uno o
più lavoratori, la specificazione di tali motivi implica
necessariamente anche l'indicazione del lavoratore o dei lavoratori da
sostituire e delle cause della loro sostituzione; solamente in questa
maniera, infatti, l'onere che l'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del
2001 impone alle parti che intendano stipulare un contratto di lavoro
subordinato a tempo determinato può realizzare la propria finalità,
che è quella di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa
dell'apposizione del termine e l'immodificabilità della stessa nel
corso del rapporto.
Non avendo gli impugnati artt. 1, comma 1, ed 11 del d.lgs. n. 368
del 2001 innovato, sotto questo profilo, rispetto alla disciplina
contenuta nella legge n. 230 del 1962, non sussiste la denunciata
violazione dell'art. 77 della Costituzione.
Invero, l'art. 2, comma 1, lettera b), della legge di
delega n. 422 del 2000 consentiva al Governo di apportare modifiche o
integrazioni alle discipline vigenti nei singoli settori interessati
dalla normativa da attuare e ciò al fine di evitare disarmonie tra le
norme introdotte in sede di attuazione delle direttive comunitarie e,
appunto, quelle già vigenti.
In base a tale principio direttivo generale, il Governo era
autorizzato a riprodurre, nel decreto legislativo di attuazione della
direttiva 1999/70/CE, precetti già contenuti nella previgente
disciplina del settore interessato dalla direttiva medesima (contratto
di lavoro a tempo determinato). Infatti, inserendo in un unico testo
normativo sia le innovazioni introdotte al fine di attuare la
direttiva comunitaria, sia le disposizioni previgenti che, attenendo
alla medesima fattispecie contrattuale, erano alle prime intimamente
connesse, si sarebbe garantita la piena coerenza della nuova
disciplina anche sotto il profilo sistematico, in conformità con
quanto richiesto dal citato art. 2, comma 1, lettera b), della
legge di delega.
Non sussiste neppure la denunciata lesione dell'art. 76 Cost.,
poiché le norme censurate, limitandosi a riprodurre la disciplina
previgente, non determinano alcuna diminuzione della tutela già
garantita ai lavoratori dal precedente regime e, pertanto, non si
pongono in contrasto con la clausola n. 8.3 dell'accordo-quadro
recepito dalla direttiva 1999/70/CE, secondo la quale l'applicazione
dell'accordo non avrebbe potuto costituire un motivo per ridurre il
livello generale di tutela già goduto dai lavoratori.
Per la stessa ragione (insussistenza, sotto il profilo in esame,
di un contrasto con la normativa comunitaria) è infondata la censura
formulata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., il quale
impone al legislatore di rispettare i vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
4. – Il Tribunale di Roma (r.o. n. 217 del 2008) dubita della
legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1-bis, del d.lgs.
n. 368 del 2001, aggiunto dall'art. 1, comma 558, della legge 23
dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2006). In virtù
di tale disposizione è consentita l'apposizione di un termine alla
durata del contratto di lavoro subordinato quando l'assunzione sia
effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle
poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra
aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi
diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per
cento dell'organico aziendale, riferito al 1° gennaio dell'anno cui le
assunzioni si riferiscono.
Ad avviso del rimettente, la norma, consentendo alle aziende
concessionarie di servizi nei settori delle poste di stipulare
contratti di lavoro a tempo determinato (oltre che per le causali e
nelle forme previste dall'art. 1 dello stesso d.lgs. n. 368 del 2001)
anche liberamente entro i limiti temporali e quantitativi in essa
indicati, violerebbe, da un lato, l'art. 3, primo comma, Cost., poiché
introdurrebbe, ai danni dei lavoratori operanti nel settore delle
poste, una disciplina differenziata del lavoro a termine priva di
ragionevolezza e di valide ragioni giustificatrici e, dall'altro, gli
artt. 101, 102 e 104 Cost., perché l'introduzione di una «acasualità»
per le assunzioni a termine nel settore postale sottrarrebbe
ingiustificatamente al giudice ordinario il potere di verifica delle
effettive ragioni oggettive e temporanee poste alla base di dette
assunzioni.
4.1. – La questione non è fondata.
Innanzitutto non è ravvisabile alcuna lesione dell'art. 3 della
Costituzione.
La norma censurata costituisce la tipizzazione legislativa di
un'ipotesi di valida apposizione del termine. Il legislatore, in base
ad una valutazione – operata una volta per tutte in via generale e
astratta – delle esigenze delle imprese concessionarie di servizi
postali di disporre di una quota (15 per cento) di organico
flessibile, ha previsto che tali imprese possano appunto stipulare
contratti di lavoro a tempo determinato senza necessità della puntuale
indicazione, volta per volta, delle ragioni giustificatrici del
termine.
Tale valutazione preventiva ed astratta operata dal legislatore
non è manifestamente irragionevole.
Infatti, la garanzia alle imprese in questione, nei limiti
indicati, di una sicura flessibilità dell'organico, è direttamente
funzionale all'onere gravante su tali imprese di assicurare lo
svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al
trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonché la
realizzazione e l'esercizio della rete postale pubblica i quali
«costituiscono attività di preminente interesse generale», ai sensi
dell'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261
(Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per
lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per
il miglioramento della qualità del servizio).
In particolare, poi, in esecuzione degli obblighi di fonte
comunitaria derivanti dalla direttiva 1997/67/CE, l'Italia deve
assicurare lo svolgimento del c.d. “servizio universale” (cioè la
raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione degli invii
postali fino a 2 chilogrammi; la raccolta, il trasporto, lo
smistamento e la distribuzione dei pacchi postali fino a 20
chilogrammi; i servizi relativi agli invii raccomandati ed agli invii
assicurati: art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 261 del 1999); tale
servizio universale «assicura le prestazioni in esso ricomprese, di
qualità determinata, da fornire permanentemente in tutti i punti del
territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole
minori e delle zone rurali e montane, a prezzi accessibili a tutti gli
utenti» (art. 3, comma 1); l'impresa fornitrice del servizio deve
garantire tutti i giorni lavorativi, e come minimo cinque giorni a
settimana, salvo circostanze eccezionali valutate dall'autorità di
regolamentazione, una raccolta ed una distribuzione al domicilio di
ogni persona fisica o giuridica (art. 3, comma 4); il servizio deve
esser prestato in via continuativa per tutta la durata dell'anno (art.
3, comma 3).
Non è, dunque, manifestamente irragionevole che ad imprese tenute
per legge all'adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa
flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati
inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo
determinato.
Si aggiunga che l'art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368
del 2001 impone alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste
di assunzioni a termine, prevedendo così un meccanismo di trasparenza
che agevola il controllo circa l'effettiva osservanza, da parte
datoriale, dei limiti posti dalla norma.
La questione non è fondata neppure sotto il profilo della pretesa
violazione degli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione.
La norma censurata si limita a richiedere, per la stipula di
contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi
nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli
in generale (non già l'indicazione di specifiche ragioni temporali,
bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale
dell'organico complessivo). Pertanto il giudice ben può esercitare il
proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in
concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale.
5. – Con diciannove distinte ordinanze, le Corti di appello di
Torino (r.o. n. 427 del 2008), Genova (r.o. n. 441 del 2008), Bari (r.o.
n. 12 del 2009), Caltanissetta (r.o. n. 43 del 2009), Venezia (r.o. n.
93 del 2009), L'Aquila (r.o. n. 95 del 2009) e Roma (r.o. n. 102 del
2009), ed i Tribunali di Roma (r.o. n. 413 del 2008), Ascoli Piceno (r.o.
nn. 442 e 443 del 2008), Trieste (r.o. n. 4 del 2009), Viterbo (r.o.
n. 22 del 2009), Milano (r.o. nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del 2009) e
Teramo (r.o. n. 70 del 2009), hanno sollevato questioni di legittimità
costituzionale dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001,
introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del d.l. n. 112 del 2008.
La norma censurata dispone che «Con riferimento ai soli giudizi in
corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e
fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione
delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro
è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con
un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di
sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio
1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), e successive
modificazioni».
I giudici rimettenti, premettendo che, secondo il “diritto
vivente”, in caso di violazione delle prescrizioni contenute nell'art.
1 del d.lgs. n. 368 del 2001, può essere disposta la conversione del
contratto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e riconosciuta
al lavoratore una tutela risarcitoria piena, affermano che l'art. 4-bis
del d.lgs. n. 368 del 2001 violerebbe: l'art. 3 Cost., poiché è fonte
di irragionevole disparità di trattamento, collegata al solo dato
temporale del momento di proposizione del ricorso giudiziale, tra
lavoratori che si trovano nella identica situazione di fatto (r.o. nn.
413, 427, 441, 442 e 443 del 2008; 4, 12, 25, 26, 27, 28, 43, 86, 87 e
93 del 2009); l'art. 3 Cost., in quanto introduce una disciplina priva
di ragionevolezza, perché: a) interviene nei rapporti di
diritto privato sacrificando arbitrariamente il diritto del lavoratore
assunto illegittimamente a tempo determinato a godere della tutela
garantita dalla legge vigente all'epoca dell'instaurazione del
rapporto e favorendo contemporaneamente il datore di lavoro che ha
dato luogo all'illegittimità (r.o. nn. 442 e 443 del 2008); b)
non è ravvisabile alcuna giustificazione razionale nel fatto che la
disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad una categoria
di soggetti, riducendo la tutela mentre pendono i giudizi, proprio e
solo per il fatto di avere una causa in corso (r.o n. 102 del 2009);
c) la delimitazione temporale del trattamento discriminatorio
si riferisce alla mera pendenza del processo, e quindi ad una
circostanza assolutamente accidentale (r.o. nn. 22, 70 e 95 del 2009);
gli artt. 3, primo comma, e 24 Cost., perché vìola il generale
principio dell'affidamento legittimamente posto dal cittadino sulla
certezza dell'ordinamento giuridico (r.o. nn. 413 del 2008; 12, 22 e
70 del 2009); l'art. 10 Cost., poiché lede il principio di parità di
trattamento che è principio generale del diritto internazionale e
comunitario che l'Italia si è impegnata a rispettare (r.o. nn. 25, 26,
27, 28, 86 e 87 del 2009); gli artt. 11, secondo periodo, e 117, primo
comma, Cost., perché, riducendo la tutela accordata in precedenza
dall'ordinamento ai lavoratori assunti con contratto a tempo
determinato, vìola la clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro sul
lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE e,
conseguentemente, l'obbligo del legislatore interno di rispettare i
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario ed internazionale (r.o.
nn. 442 e 443 del 2008); l'art. 24 Cost., perché compromette il
diritto di difesa dei lavoratori ricorrenti, sottraendo loro la
possibilità di ottenere il vantaggio della conversione del contratto
in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la cui prospettiva aveva
direttamente condizionato l'esercizio del loro diritto di azione (r.o.
nn. 427 del 2008; 24, 25, 26, 27, 28, 43, 86, 87, 93 e 102 del 2009);
l'art. 111 Cost., con riferimento al principio del giusto processo,
perché la norma censurata modifica, nel corso dei procedimenti
giudiziali, la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato,
senza che ricorrano idonee ragioni oggettive o generali (r.o. nn. 93 e
102 del 2009); gli artt. 101, 102, secondo comma, e 104, primo comma,
Cost., poiché un intervento legislativo che riguardi solamente alcuni
giudizi in corso ad una certa data è privo del requisito di
astrattezza proprio delle norme giuridiche ed assume un carattere
provvedimentale generale invasivo dell'àmbito riservato alla
giurisdizione (r.o. nn. 413 del 2008 e 22 del 2009); l'art. 117, primo
comma, Cost., in connessione con l'art. 6 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali
firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata dalla legge 4 agosto
1955, n. 848), il quale impedisce al legislatore di intervenire con
norme ad hoc per la risoluzione di controversie in corso (r.o.
nn. 413 e 441 del 2008; 4, 12, 22, 43, 25, 26, 27, 28, 70, 86, 87, 93,
95 e 102 del 2009); l'art. 117, primo comma, Cost., poiché la norma
censurata costituisce un completamento o una modifica del d.lgs. n.
368 del 2001 e dunque un'applicazione della direttiva 1999/70/CE e
avrebbe pertanto dovuto rispettare la clausola di non regresso
enunciata nella clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro recepito
dalla medesima direttiva (r.o. nn. 25, 26, 27, 28, 86 e 87 del 2009).
5.1. – Nel giudizio introdotto dall'ordinanza n. 4 del 2009 è
intervenuta l'associazione “Articolo 21 Liberi di”, che non era parte
nel relativo giudizio a quo.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, possono partecipare
al giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti
del giudizio principale e i terzi portatori di un interesse
qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto
in giudizio (da ultimo, sentenza n. 47 del 2008). L'associazione
“Articolo 21 Liberi di” motiva il proprio intervento con la necessità
di rappresentare alla Corte che il lavoro precario è largamente
diffuso anche nel settore dell'editoria e della radiotelevisione.
L'interesse dell'associazione è, quindi, privo di correlazione con le
specifiche e peculiari posizioni soggettive dedotte nel giudizio
principale ed il suo intervento deve essere dichiarato inammissibile.
5.2. – Le questioni sollevate dalle Corti di appello di Torino,
Caltanissetta, Venezia e L'Aquila e dal Tribunale di Teramo sono
inammissibili per insufficiente motivazione sulla rilevanza.
Infatti gli atti di rimessione nulla dicono circa la legittimità o
meno del termine apposto ai contratti di lavoro oggetto dei relativi
giudizi a quibus. Pertanto questa Corte non è posta in
condizione di verificare la sussistenza, nelle singole fattispecie,
del requisito della rilevanza, perché ben potrebbe darsi che, in
quelle ipotesi, non sussista violazione né dell'art. 1, né dell'art.
2, né dell'art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, con conseguente
inapplicabilità dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 nei
giudizi principali.
5.3. – La questione sollevata dalla Corte d'appello di Bari è
inammissibile per un'analoga ragione. Infatti, il giudice a quo
si esprime in termini meramente possibilistici circa la fondatezza
della tesi – sostenuta dal lavoratore – della nullità del termine
apposto al contratto per cui è causa e, quindi, neppure in tal caso
questa Corte può essere certa della rilevanza della questione.
5.4. – Le questioni sollevate dal Tribunale di Milano sono
inammissibili per difetto di rilevanza, perché nella motivazione di
ciascun atto di rimessione si legge che il relativo giudizio a quo
è stato promosso dopo l'entrata in vigore della norma censurata,
mentre l'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 si applica
solamente alle controversie in corso alla data della sua entrata in
vigore.
5.5. – Residuano, pertanto, le questioni sollevate dalle Corti
d'appello di Genova e di Roma e dai Tribunali di Roma, Ascoli Piceno,
Trieste e Viterbo.
Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito
l'inammissibilità di tali questioni (ad eccezione di quella sollevata
dal Tribunale di Roma), perché i rimettenti non hanno spiegato per
quale ragione, nella fattispecie concreta oggetto del loro giudizio,
pur ammettendo che il termine sia stato illegittimamente apposto, non
si dovrebbe dichiarare l'estinzione del rapporto per mutuo consenso.
L'eccezione non è fondata.
In effetti, l'ordinanza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 442 del
2008 espressamente dà atto dell'infondatezza dell'eccezione di
estinzione del rapporto per mutuo consenso sollevata dal datore di
lavoro nel giudizio principale.
Nelle ordinanze delle Corti di appello di Genova e di Roma sono
indicate le eccezioni sollevate in secondo grado dalle parti datoriali
e tra esse non figura quella di estinzione del rapporto per mutuo
consenso; ciò è sufficiente al fine di ritenere rilevante la questione
di legittimità dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001 nei
relativi giudizi principali, poiché questi ultimi sono giudizi di
secondo grado nei quali, in difetto di una specifica eccezione
sollevata dalla parte interessata, il giudice non può affermare
l'estinzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso.
Analogamente, nell'ordinanza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 443
del 2008 sono riportate tutte le difese del datore di lavoro e, tra
queste, non v'è l'eccezione di estinzione per mutuo consenso, non
rilevabile d'ufficio.
Nella propria ordinanza di rimessione il Tribunale di Trieste
lascia impregiudicata l'eccezione di estinzione per mutuo consenso
formalmente eccepita dal datore di lavoro e tuttavia aggiunge che, in
ogni caso, nella fattispecie oggetto del giudizio a quo, vi
sarebbero gli estremi per la dichiarazione della costituzione di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato dalla data di sottoscrizione
del primo contratto di lavoro a tempo determinato tra le parti alla
scadenza dell'ultimo; conseguentemente, l'art. 4-bis
impedirebbe anche tale, sia pure ridotta, declaratoria di conversione
del rapporto.
L'ordinanza del Tribunale di Viterbo è stata pronunciata nel corso
di un giudizio cautelare promosso poco dopo la scadenza del contratto
a termine, onde – avendo il lavoratore immediatamente reagito in sede
giudiziale – non sussiste la circostanza del consistente lasso di
tempo intercorso tra la scadenza del termine e la proposizione del
ricorso giudiziale richiesta dalla giurisprudenza di legittimità per
poter affermare che si sia formato un mutuo consenso per l'estinzione
del rapporto.
5.6. – Con riferimento alle questioni sollevate proprio dal
Tribunale di Viterbo, il Presidente del Consiglio dei ministri
eccepisce, inoltre, la loro inammissibilità perché, dalla motivazione
dell'ordinanza di rimessione, apparirebbe che la fattispecie dedotta
nel giudizio principale sia da ricondurre all'ambito di operatività
dell'art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001 (che disciplina l'ipotesi della
successione dei contratti a termine), fattispecie cui non si applica
l'art. 4-bis dello stesso d.lgs. n. 368.
L'eccezione non è fondata.
Infatti il Tribunale di Viterbo afferma espressamente che l'ordine
di riammissione in servizio della lavoratrice – contenuto
nell'ordinanza pronunciata ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ.
contro la quale è stato proposto il reclamo che il rimettente deve
decidere – è stato pronunciato perché il giudice di prime cure aveva
ritenuto la violazione dell'art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001 per
omessa indicazione delle causali dell'assunzione a tempo determinato,
fattispecie che rientra pacificamente nell'àmbito di operatività
dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368.
5.7. – Nel merito le questioni sollevate in riferimento all'art. 3
Cost. dalle Corti d'appello di Genova e di Roma e dai Tribunali di
Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo sono fondate.
In effetti, situazioni di fatto identiche (contratti di lavoro a
tempo determinato stipulati nello stesso periodo, per la stessa
durata, per le medesime ragioni ed affetti dai medesimi vizi)
risultano destinatarie di discipline sostanziali diverse (da un lato,
secondo il diritto vivente, conversione del rapporto in rapporto a
tempo indeterminato e risarcimento del danno; dall'altro, erogazione
di una modesta indennità economica), per la mera e del tutto casuale
circostanza della pendenza di un giudizio alla data (anch'essa
sganciata da qualsiasi ragione giustificatrice) del 22 agosto 2008
(giorno di entrata in vigore dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368
del 2001, introdotto dall'art. 21, comma 1-bis, del
decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112).
Siffatta discriminazione è priva di ragionevolezza, né è collegata
alla necessità di accompagnare il passaggio da un certo regime
normativo ad un altro. Infatti l'intervento del legislatore non ha
toccato la disciplina relativa alle condizioni per l'apposizione del
termine o per la proroga dei contratti a tempo determinato, ma ha
semplicemente mutato le conseguenze della violazione delle previgenti
regole limitatamente ad un gruppo di fattispecie selezionate in base
alla circostanza, del tutto accidentale, della pendenza di una lite
giudiziaria tra le parti del rapporto di lavoro.
Deve pertanto essere dichiarata l'illegittimità costituzionale
dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, con assorbimento
delle questioni sollevate in riferimento ad altri parametri
costituzionali dalle Corti d'appello di Genova e di Roma e dai
Tribunali di Roma, Ascoli Piceno, Trieste e Viterbo.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis
del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della
direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto
dall'art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n.
112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza
pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2008, n. 133;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale del medesimo art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del
2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 10, 11, 24, 111, 117,
primo comma, della Costituzione, dalle Corti di appello di Torino,
Bari, Caltanissetta, Venezia e L'Aquila e dai Tribunali di Milano e
Teramo con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368 del
2001, sollevate, in riferimento agli artt. 76, 77 e 117, primo comma,
della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza n. 413 del
2008 e dal Tribunale di Trani con l'ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del
2001, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 101, 102 e
104 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza n. 217
del 2008.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta,
l'8 luglio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 14 luglio 2009.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA |